Di come Felwin di Ganathea ottenne la sacca del gigante e il tesoro dello specchio che riflette il cielo
Fu così che Felwin di Ganathea, trovandosi ad attraversare le terre degli uomini, volle cogliere con i propri occhi lo splendore dello specchio che riflette il cielo, caro agli Dèi e alla loro stirpe. E godendo della benedizione dei druidi guardiani d’alberi, il viaggio fu per lui lungo, ma non periglioso, sotto lo sguardo benevolo di Àtea fertile ventre e Lorazain Barazezain, il servo che toglie e che dà. Per tre giorni camminò tra boschi e monti e per tre notti dormì tra valli e fiumi, sino a raggiungere il letto d’amore di Ur e Su; e di lì proseguì a settentrione, guardando ogni sera il tramontar del sole, per un altro giorno e metà di una notte. Giunto che fu nel sacro luogo, Felwin di Ganathea, amato da Amodia, sentì un pianto dirotto, tanto forte da scuotere le verdi fronde e far tremare la terra bruna. E quando vide la fonte dei singhiozzi, grande fu il suo stupore, ché nascosto dai vapori che sono il respiro di Lur in quei luoghi vi era un gigante tanto grande di statura da sfiorare il cielo con il capo.
E Felwin di Ganathea chiese: “Figlio di Iskar, cosa ti porta al pianto? Certo le lacrime poco si addicono a un gigante sì grande e grosso, che nulla teme se non gli Dèi sopra di lui”
E il gigante rispose, voce tonante: “Stirpe di Xarma, figlio di Amalurra, proprio gli Dèi mi fanno piangere, non di paura e non di rabbia, ma di fame: perché Iskar mio padre, contrariato dal mio grande appetito, mi ha proibito per tre giorni di pescare in questi luoghi, temendo che tutti i pesci finissero dal lago sacro alla pancia mia. Ma su, dimmi il tuo nome, così che ti possa ringraziare per essermi da pasto; e stai pur certo che sulle tue spoglie cadrà pure la benedizione del padre mio Iskar”.
E Felwin lingua dorata rispose: “Io sono Felwin di Ganathea, amato da Amodia, benedetto da Zear, inviso da Ilun e Langil; ben lieto sarò di rimpinguare il tuo desco, e se questa è la volontà del padre tuo Iskar non mi offrirò di pescare per te trote argentate”.
E lo sciocco gigante abboccando all’amo rispose: “Nessun mortale può catturar con reti o ami i pesci gustosi di queste acque care agli Dèi. Pure, se riesci per tre giorni almeno a saziar la fame mia con trote e lucci baffuti, ti chiamerò amico risparmiandoti la vita.”
E Felwin rispose, dubbio nella voce e risa nel cuore: “Perché mai dovrei andar contro la volontà di Iskar bellicoso? Ben poco mi offri, mio signore, per rinunziare all’onore di farti da pranzo e cena.”
E il gigante, impaziente, rispose: “E sia, figlio di Amalurra: compi l’impresa e ti donerò il mio borsello; grande per te quanto la più grande sacca, scoprirai che al di dentro è grande ancor di più. Fallisci o scappa, piangi o combatti, ti accorderò senza indugiare quell’onore cui tanto aspiri”.
E Felwin rispose: “Aspetta qui e non temere: in poche ore ti porterò un pesce prelibato, e Ilun mi colga se provo a scappare!”
Non sapeva il gigante della scaglia fatata che Azamizar il Grande Blu aveva donato a Felwin di Ganathea, come ringraziamento per avergli salvato la vita nel profondo Mare selvaggio. Tale era il potere della scaglia fatata, per cui una e una volta sola poteva lanciare un richiamo al quale qualsiasi creatura delle acque, figlia di Izas o di Ur, avrebbe dovuto rispondere. E già Felwin di Ganathea stava escogitando ingegnose trovate per sfuggire all’ira del gigante al secondo e al terzo giorno, dopo aver fatto ricorso per la prima e unica volta al potere della scaglia fatata, perché certo non poteva uccidere con l’inganno o con la forza un figlio di Iskar senza incorrere nell’ira del padre; quand’ecco i suoi piedi lo portarono infine allo specchio che riflette il cielo. E qui l’elfo si fermò rapito, perché non esiste Dio o mortale che possa guardare nello specchio senza subirne il fascino. Saziati che ebbe gli occhi e lo spirto, Felwin poggiò l’azzurra scaglia sull’azzurro lago, dove galleggiò per un attimo prima di affondare; e un canto soave si diffuse nell’aria, e l’elfo cantò assieme per chiamare a sé un pesce dalle acque e farlo suo. Ma i pesci delle sacre acque non sono pesci comuni, sicchè anche quello chiamato da Felwin era mirabolante d’aspetto e di natura: pinne e scaglie aveva, sì, ma pure un volto bellissimo di donna e voce soave, tanto che dal collo in su pareva dama nobilissima e dal collo in giù luccio argentato.
Così disse la donna pesce: “Chi mi chiama? Chi sei, figlio di Amalurra, stirpe di Xarma, che godi del favore di Azamizar il Grande Blu?”
E Felwin rispose: “Io sono Felwin di Ganathea, e ti chiamo per saziare l’appetito del gigante figlio di Iskar che infesta queste terre”
E lo spirito delle acque piangendo rispose: “Ahimè, ahimè, così crudele è il tuo comando, al quale pure devo obbedire? Perché mi vuoi tanto male, che pure alcuno te ne ho fatto?”
E Felwin rispose: “Male alcuno ti voglio, mia signora, e certo credevo di chiamare un semplice pesce, non una figlia prediletta di Ur. Pure, se non ti do in pasto al gigante, saranno senz’altro le mie carni ed interiora ad arricchire il suo desco.”
Così rispose la dama del lago: “Risparmiami, mio buon elfo, o trova un modo per salvarmi; e io ti donerò il tesoro dello specchio che riflette il cielo”
Così disse, e Felwin pensò e pensò, e infine comandò allo spirito di farsi piccino, e di entrare nella sua borraccia carica d’acqua. E così, ancora viva, portò la dama-pesce dal gigante, che nel veder tornare l’elfo reclamò il pasto. E s’infuriò quando Felwin aprì la borraccia, mostrando un pesce tanto piccolo da costituir magro banchetto anche per un uccellino. Ma Felwin placò lo stolto gigante con salace menzogna: “Non temere, mio signore, questo è un pesce magico, di rara stirpe: è soltanto un pesciolino, appena uscito dal ventre della madre, ma se lo si ingoia tutto intero, cresce lesto lesto nottetempo, direttamente nella pancia di chi l’ha mangiato e giace dormendo. E tanto più grande la pancia, tanto più grande il pasto”.
Non ebbe bisogno di dire altro, che già il gigante aveva ingollato con un sorso pesce e acqua. Poi tuonò il figlio di Iskar: “Ora dormo, amico mio, ma se al risveglio non son sazio, mi farai tu da pasto e dolce.”
E mentre il gigante dormiva e russava, scotendo la terra quanto e più che non con i suoi precedenti singhiozzi, Felwin di Ganathea gli sbottonò la blusa enorme, rivelando uno stomaco gonfio come otre di vino e villoso come dorso di capra. E sfoderata Sfuggente, dalla lama tanto sottile da poter tagliare in due uno spirito di Haize, fece un taglio così delicato nel ventre collinoso che il gigante non si accorse di nulla, e anzi continuò a dormire più sonoramente di prima. Dal taglio Felwin di Ganathea estrasse il pesce e l’acqua, che finirono direttamente nella sua borraccia; e al loro posto mise un macigno largo e pesante che ci sarebbero voluti due uomini comuni a sollevarlo. Ricucì poi la ferita usando come filo gli spessi peli del gigante, così che il mostro non si accorgesse di nulla al risveglio.
Fu così che il gigante si svegliò dal sonno con lo stomaco greve e gonfio, e caduto nell’inganno si convinse che il pesce miracoloso fosse cresciuto nella sua pancia durante il sonno. E correndo qua e là strillava: “È vero, è vero! Quale prodigio, che leccornia! Pescane un altro, elfo, pescane un altro che sia tale e quale a questo, o ti mangio lo stesso, parola mia!”
Ignorando la tracotanza del gigante nel ritrattare un accordo già pattuito, Felwin di Ganathea tornò allo specchio che riflette il cielo, e lì si fermò a rimirarlo senza far nulla; giunto che fu il tramonto, tornò dal gigante offrendogli nuovamente la borraccia con la dama-pesce. Si ripetè così la scena del giorno precedente, e poi una volta ancora l’indomani, sino a che per la terza e ultima volta Felwin non liberò la dama-pesce, lasciando nello stomaco del figlio di Iskar una pietra che ancora oggi gli appesantisce le viscere.
E lo stolto gigante non potè che lasciar andare Felwin di Ganathea, non prima di avergli fatto dono del suo borsello incantato; e la dama-pesce, nuovamente libera nelle sacre acque, si accomiatò dall’elfo facendogli dono del tesoro dello specchio che riflette il cielo e della sua sempiterna amicizia.
Riposto il tesoro nella smisurata sacca del gigante, Felwin di Ganathea si diresse allora verso meridione, guardando ogni mattina il sorgere del sole; e tornò al letto d’amore di Ur e Su, perché la dama-pesce, figlia di Ur, gli aveva rivelato un sorprendente segreto circa quei luoghi.